da “Avvocati per soli uomini, o quasi”
Una volta all’anno, nello stesso periodo, l’avvocato Sini compie un gesto che non compare su nessuna agenda. Nessun cliente lo richiede, nessun tribunale lo impone. È un gesto silenzioso, privato, apparentemente tecnico: fare l’inventario.
Non è quello fiscale, e nemmeno quello legale. È un rito personale. La chiusura temporanea dello studio, il telefono spento, il gestionale aperto solo per consultazione. Una giornata dedicata a riordinare, archiviare, chiudere le pratiche del passato, sistemare quello che si è accumulato nel tempo — non solo fisicamente.
Questa volta, però, qualcosa spinge oltre. Forse l’aria di maggio, forse una nostalgia sottile, difficile da spiegare. Così, invece del solito controllo annuale, l’attenzione si sposta sull’intero archivio: dieci anni di attività, tutti lì, accatastati in scaffali alti e cassetti profondi. Faldoni numerati, etichette scolorite, cartelle con margini annotati a penna, timbri ormai sbiaditi.
Sini osserva il mucchio di fascicoli con rispetto. Sa già che in mezzo a quelle carte ci sarà tutto: vittorie, accordi, rinunce, errori. C’è chi non ha più dato notizie e chi ha continuato a scrivere anche dopo la fine della causa, per un consiglio, un aggiornamento, un grazie.
Il primo fascicolo che si apre fa già tornare alla memoria un nome, un volto. Un cliente arrivato in studio con voce incerta, alle prese con una separazione difficile. La paura che si leggeva negli occhi, la volontà di non ferire nessuno, ma anche il bisogno urgente di essere ascoltato. Quel caso aveva richiesto tempo, pazienza, incontri lunghi, ma si era concluso in modo equo. C’era stata dignità, e nel silenzio che aveva seguito la firma dell’accordo, Sini aveva avvertito una gratitudine muta, sincera.
Poi si passa ad altre pratiche. Successioni complicate, fratelli in lotta per case di famiglia che non volevano nemmeno abitare, ma che simboleggiavano altro: rancori, rivendicazioni mai espresse. Alcuni incontri erano stati tesi, gelidi. Altri pieni di emozioni trattenute. In ogni caso, in ogni parola, c’era qualcosa che andava oltre il diritto. E Sini, ogni volta, cercava di non dimenticarlo.
I fascicoli dei sinistri raccontano invece un altro tipo di dolore. Quello improvviso, inaspettato. Incidenti, ferite, lunghe degenze. I numeri delle polizze, le perizie tecniche, le lettere delle compagnie assicurative. E dietro, persone comuni, spesso spaesate, che cercavano un senso nella burocrazia. Sini aveva imparato ad ascoltare con calma, a spiegare anche ciò che non si voleva sentire. E a essere presente, con discrezione.
Nel silenzio dello studio, il tempo assume un altro ritmo. Le ore non si contano più. Ogni fascicolo aperto è un ricordo che riaffiora. A volte basta una firma, una nota scritta in fretta, una data cerchiata. Ed ecco che un caso chiuso da anni torna alla memoria con tutti i suoi dettagli. Sini non li aveva dimenticati, solo messi via — come si fa con certe emozioni che, per lavorare bene, bisogna saper contenere.
Dieci anni sono tanti. In dieci anni cambiano le leggi, cambiano le modalità di lavoro, cambiano anche le persone. Sini si rende conto di come siano cambiati lo sguardo e il passo. All’inizio c’era l’urgenza di fare bene, il timore di sbagliare, la voglia di risolvere tutto subito. Col tempo, è arrivata una forma diversa di consapevolezza. Meno fuoco, forse. Ma più profondità.
Ora, sfogliando quelle carte, emerge un pensiero inatteso: tutto questo ha avuto senso. Anche se nessuno lo dice apertamente, anche se raramente arriva un riconoscimento vero, c’è stato valore. Non solo per le sentenze, ma per la presenza nei momenti delicati. Non è un ruolo appariscente, quello dell’avvocato. Ma è un ruolo che lascia tracce.
Ogni cliente ha portato con sé una piccola parte di sé. Sini ne ha raccolte tante. Le ha custodite con riservatezza, con rispetto, con umanità. E ora, guardando la montagna di fascicoli accatastati sulla scrivania, si rende conto che ha fatto la differenza. Forse piccola. Forse invisibile. Ma reale.
Un caso, in particolare, torna con forza. Una causa civile lunga, quasi tre anni, contro una grossa compagnia. Il cliente era arrivato distrutto, economicamente e moralmente. Un danno enorme, un’attività rovinata da un errore che nessuno voleva riconoscere. C’era rabbia, ma anche rassegnazione. Eppure, Sini aveva visto la possibilità, là dove altri avevano solo alzato le spalle. Ci erano voluti mesi di studio, consulenti da scegliere con cura, udienze complesse. Ogni dettaglio era diventato cruciale.
Quando era arrivata la sentenza, tutto si era fermato. Il giudice aveva accolto la domanda quasi integralmente. Il risarcimento era stato superiore a ogni aspettativa. Una cifra importante, che aveva rimesso in piedi una vita. Il cliente non aveva detto molto — solo uno sguardo, una stretta di mano. Ma bastava. Bastava quello.
Per giorni, Sini aveva camminato per lo studio con una leggerezza nuova. Non per l’aspetto economico, non per il prestigio. Ma perché quel caso aveva significato giustizia vera. Aveva confermato, senza bisogno di parole, che il lavoro fatto con cura può cambiare davvero le cose.
Non tutto è andato come si sarebbe voluto. Alcune cause si sono concluse in modo amaro. Qualche sentenza ha lasciato un senso di frustrazione. Ma sono eccezioni. La maggior parte dei casi ha avuto una direzione giusta, un esito utile. E questo basta.
Con un gesto lento, Sini chiude un altro faldone. Si appunta una data, registra una chiusura. Un’altra storia va a riposare in archivio. Ma dentro resta viva, come tutte le altre.
Il sole ormai si è abbassato, la luce nello studio si fa dorata. Il caffè della mattina è rimasto a metà, freddo, sulla scrivania. Le dita hanno un po’ di polvere addosso. Le spalle sono stanche. Ma il cuore, in modo inaspettato, è leggero.
Sini si concede qualche istante ancora. Guarda fuori dalla finestra, osserva la strada deserta, la calma che avvolge la città. Poi torna a sedersi.
Non serve dire nulla. Dentro, una sola certezza si fa largo: è stata la scelta giusta.