“Ci sono parole che non dici mai a voce, ma che scrivi nel cuore cento volte. Sperando che qualcuno, prima o poi, le legga comunque.”
Il silenzio, quando è costante, diventa una lingua a sé. Marco e Marta avevano smesso di parlarsi da mesi, ma non avevano smesso di pensarsi. E quando il pensiero non riesce a uscire dalla bocca, finisce per cercare vie secondarie.
Marta iniziò a scrivere lettere.
Lo faceva la sera, quando la città si spegneva piano e la sua casa – luminosa, ordinata, solitaria – diventava una scatola di ricordi. Apriva il computer, creava una nuova bozza, e scriveva. Ogni volta una lettera diversa, con un tono diverso: dolce, arrabbiato, malinconico, ironico.
Nessuna veniva inviata.
Una delle sue preferite cominciava così:
“Caro Marco,
se ti scrivo è solo perché non riesco più a parlarti. E se non riesco a parlarti, è perché ho paura che tu non voglia ascoltarmi davvero…”
La salvò in una cartella chiamata “bozze impossibili”.
Una sera, distratta da mille finestre aperte sullo schermo, Marta allegò per sbaglio una foto alla bozza sbagliata. Una vecchia immagine di Marco con il cane Arturo, seduto sul tappeto davanti al camino, durante una sera d’inverno. Lui non la vedeva, ma sorrideva. Un sorriso autentico, che da mesi lei non riusciva più a ricordare.
Nella mail aveva scritto solo:
“A volte lo odio. Ma altre… mi manca come l’aria.”
Invece di cancellarla, cliccò invio per errore. Non al destinatario previsto, ma all’ultimo indirizzo usato in rubrica.
Quello dell’avv. Sini.
Sini aprì la mail senza aspettarsi nulla. Quando lesse il testo, rimase immobile per qualche secondo. Era breve. Spoglio. Sincero.
Non era un errore tecnico: era una crepa emotiva. E da quella crepa, come sempre, filtrava qualcosa di vivo.
Non rispose. Non inoltrò. Non commentò.
Fece solo una cosa: stampò quella frase. La chiuse in una busta.
E durante il successivo incontro con Marco, la lasciò scivolare sul tavolo. Senza dir nulla.
— Che cos’è? — chiese lui, sorpreso.
— Leggi.
Lo fece. Più volte.
All’inizio con confusione, poi con un’espressione che oscillava tra dolore e speranza. Si voltò verso Sini con gli occhi lucidi.
— Quando l’ha scritta?
— Non importa. Importa che non è stata cancellata.
Quella sera, Marco non riuscì a dormire. Riaprì un vecchio blocco note sul suo telefono. Dentro, senza saperlo, anche lui aveva lasciato parole mai dette. Una, in particolare, gli bruciava dentro:
“Vorrei solo poterti dire che ho sbagliato. Ma temo che tu sia già troppo lontana per sentirmi.”
Sini non li sollecitò. Non li incoraggiò. Ma continuò a raccogliere segnali, come un archivista d’emozioni. Era chiaro che, tra i due, il ponte non era mai crollato. Solo chiuso al traffico, in attesa di manutenzione.
Ci sono lettere che non servono a essere spedite. Servono a essere scritte. E ci sono mani, come quelle di Sini, che sanno quando è il momento di passare un messaggio senza che nessuno perda la dignità.
“A volte basta una frase letta da chi non doveva leggerla, per ricordarti che l’amore non è mai stato davvero perso. Solo dimenticato.”